Forse unica parola piemontese a essere pronunciata correttamente in tutte le lingue del mondo, i tajarìn sono il piatto identitario per eccellenza della civiltà della tavola albese. Antichi e modernissimi, semplici ed elegantissimi, presenti su tutti i menù sia di osteria che stellati, i tajarìn possono avere la morbidezza della quotidianità o il passo da sfilata.
La loro culla è la civiltà di cascina di Langa Roero e Monferrato, dove nel ‘400 i tagliarin sono già detti una consuetudine dell’alimentazione delle balie. Ma il cordone ombelicale che li nutre attinge ai valori e ai saperi della Langa più profonda, quella delle alte valli Belbo e Bormida. Paolo Monelli, il pioniere della critica enogastronomica italiana, nel 1934 scrive: <<In ogni luogo di questa regione fra Bormida e Tanaro chiedevamo appena seduti a tavola: -Dateci la vostra specialità. – I taglierini allora – ci rispondevano. Abbiamo mangiato in due giorni tante tagliatelline da avvolgerne il globo terracqueo.>> Non a caso, qui i tajarìn conoscono ancora oggi afflati particolari e sono rito, vocabolario, narrazione.
Questione di coltelli
Nella letteratura di settore sono tagliarini o taglierini, ma il nome di battesimo è senza ombra di dubbio tajarìn. Prima viene il dialetto, poi l’italianizzazione; prima le Langhe poi l’altrove: questo il percorso. E non vanno confusi con i tagliolini, parenti e non fratelli. La differenza sta in quello che da sempre viene indicato come il pregio dei tajarìn: la finezza, esaltata dall’espressione popolare “capelli d’angelo”. L’accademico della cucina Carlo Nasi, nel suo raffinato “Enchiridio del buongustaio in Piemonte: speculazioni gastronomiche” del 1965, è categorico: <<Patria dei taglierini (tajarin) sono le Langhe… L’abilità consiste nel produrli d’incredibile finezza. Ottimi, ottimi, ottimi.>> Il segreto per arrivare alla decantata finezza è poesia contadina: l’essia, il coltello ricavato dalla lama della falce (siessa) usurata da tante mietiture. Un’”arma” che pretende manualità sopraffina e che non è per tutti, in quanto estremamente pericolosa.
Nel nome, che non deriva da una forma compiuta ma esalta un’azione, va dunque cercata l’anima dei tajarin. Nomen omen: il taglio è la firma-griffe inimitabile, garanzia di autenticità artigianale “made in Langa”.
Questione di uova
I tajarin sono anche una bella metafora della storia economica di queste colline. Nati poveri dall’economia dell’aia e dalla malora, diventano ricchi grazie all’incontro con il tartufo “Magnatum Pico”, imponendo il nome di Alba come una delle principali capitali mondiali del gusto. Una storia emblematicamente raccontata dalla questione delle uova: in origine pochissime nonché legate alle stagioni del pollaio; quindi via via più abbondanti, passando per le virtuose 8 uova per chilo di farina teorizzate da Luciano Degiacomi, per arrivare ai mitici “40 russ d’euv” codificati da Maria Pagliasso al Boccondivino di Bra, il “palazzo Chigi” della rivoluzione del gusto di Slow Food. Evoluzione che si riflette nel colore dei tajarin: dall’antico farinaceo pallore all’esuberante giallo del grano maturo.
Questione di mani
Sia la civiltà contadina che quella di osteria della tradizione non hanno dubbi: i tajarin sono un rito individuale femminile. L’epica del gusto di Langa e Roero celebra la memoria di donne capaci e caparbie, artefici di una cultura del cibo che oggi primeggia nel mondo. Storie di Langa scritte sugli infiniti feuj (fogli) di pasta impastati, tirati e tagliati a mano. Saperi contemporanei patrimonio ereditario di dinastie di cuoche, come all’Italia di Serralunga d’Alba, al Belvedere di Serravalle Langhe, da Brezza o al Buon Padre di Barolo; da Violetta a Calamandrana, al Garibaldi di Cisterna d’Asti, da Gemma a Roddino …
Questione di profumi “made in Langa”
Se l’abbinamento con il sugo di fegatini di pollo può essere definito come la massima espressione di gusto della civiltà del tajarìn, va detto che sono i tajarìn con Tartufo bianco d’Alba il vero mito contemporaneo della cucina albese. Un abbinamento di assoluta perfezione, artefice del riscatto della cucina e della civiltà contadine di Langa. Generosi e umili, i tajarìn arrivano all’incontro “in bianco”, mettendo la loro calda essenzialità al servizio del tartufo. Permettendo in tal modo di cogliere le sfumature di profumo, di colore e di forma che distinguono i “cru” del pregiato fungo ipogeo. Un piatto identitario che accoglie e racconta meglio di ogni altro il percorso fatto dai non lontani tempi della malora al riconoscimento UNESCO. Un piatto che obbliga anche lo chef a fare un passo indietro e a inchinarsi davanti alla grandezza della cultura contadina e alla generosità di Madre Terra.
di Luciano Bertello