“Tuber magnatum Pico” è il sontuoso nome accademico del tartufo bianco, fungo ipogeo che lo storico latino Plinio nel I secolo d.C. definiva “miracolo della natura”.
“Tartufo bianco d’Alba” è, invece, il nome con cui questo “gioiello della terra” ha fatto il giro del mondo, proponendosi come ambasciatore delle Langhe e del Roero.
Il tartufo resta, ancora oggi, legato a leggende, fantasie e suggestioni. Infatti, risulta riottoso di fronte ai progetti di indagine scientifica, ai tentativi di coltivazione e alle indagini di mercato.
Un mondo stupendo e ricco di saperi, riconosciuti come patrimonio dell’Umanità. Un mondo culturalmente spaesante giacché, in una realtà visceralmente permeata dai valori della proprietà privata, è da sempre legato alla libera cerca. Un mondo capace, qui, tra Langhe e Roero, d’ispirare la più importante stagione turistica; d’improntare la civiltà della tavola; di sedurre i vini più stimati; di animare una milionaria asta benefica internazionale; di inventarsi addirittura una università per i cani da tartufo e un festival della canzone al tartufo. Di primeggiare anche nel titolo del nostro Ordine. Di farsi, insomma, economia e costume.
Il tartufo, oggi, parla tutte le lingue del mondo. Il vocabolario è quello della preziosità e dell’eccellenza. E dell’assoluta serietà: come s’impone ai prodotti esclusivi. Pertanto, se le leggende mantengono tutto il loro fascino, le fake news sono bandite. Falso che nel passato crescessero così copiosi da essere comuni sulle tavole contadine: i documenti d’archivio fin dal ‘500 li dichiarano come dono verso i potenti, perlopiù in rafforzo a suppliche. Falso che tutti i tartufi commercializzati nel mondo come “Bianco d’Alba” provengano da Alba: ma il fatto che tutti ambiscano a quel nome è il più autorevole riconoscimento del primato dei tartufi albesi. Falso che il tartufo non possa essere coltivato: giacché le attenzioni, la tutela, la protezione delle tartufaie sono cure profondamente intrise della radice semantica del termine “colere”, quindi vere e proprie forme di coltivazione.
Sono, queste, le premesse necessarie per raccontare un “frutto” antico e modernissimo: in dialogo con la storia, ma attento a confrontarsi con i grandi temi contemporanei, su tutti quello dei cambiamenti climatici. Infatti, in presenza di un clima sempre più siccitoso e caldo, la stagione tartuficola ritarda e si allunga, interrogando il calendario della cerca e della Fiera internazionale del tartufo d’Alba. Ne consegue che dicembre e gennaio incontrano le condizioni ideali per imporsi per l’eccellente qualità, reclamando a gran voce iniziative autorevoli in grado di cantare quel tartufo come “l’ultimo dell’annata, il primo dell’anno”.
C’è poi un terreno tanto affascinante quanto insidioso su cui il tartufo è chiamato a pronunciarsi: quello dei “tabù”. Uno su tutti: l’impossibilità scientifica di indicarne la zona di origine. Sarebbe bello andare oltre quel muro per rendere omaggio alle differenze qualitative. Infatti, in quanto figlio della terra e dell’albero, il tartufo è il traduttore di sotterranei e segreti umori. Che conferiscono caratteri e profumi unici. Perché non raccontarli come “cru”? Tra molte diffidenze, hanno iniziato a farlo i trifolao del Roero, grazie anche alle riconoscibilissime e apprezzatissime caratteristiche dei tartufi delle Rocche, la più estesa tartufaia naturale. Ma sarebbe auspicabile poterli confrontare con quelli dei fenogliani rittani di Langa o con quelli delle alte Langhe.
A ben vedere, è quanto già facciamo a livello familiare. Ed è ciò che stanno facendo gli chef più corretti: servirsi da trifolao di fiducia e spiegare-garantire ai clienti la provenienza e le qualità di quei tartufi. A volte anche in relazione all’albero: di quercia, di tiglio, di pioppo … La garanzia? La stessa che vale per l’odierna anonima genericità: la fiducia sulla parola data ovvero la serietà della persona. Basterebbe allora fare un passo in più: proporre la “carta dei tartufi” con provenienze e, ovviamente, prezzi diversi. Nessun problema se, in periodi di carente raccolta locale, arrivano dal Balcani, basta dichiararlo: sono anche quelli “Tuber magnatum Pico”. Ma nessuna tema: saranno tutti rafforzativi della qualità e dell’eccellenza del “tartufo d’Alba”: il migliore in assoluto. Quindi degno di prezzi diamantiferi. Come da sempre ci riconoscono anche gli invidiosi cugini francesi.
di Luciano Bertello