Le alte terre di Langa custodiscono l’anima delle colline del mito, oggi Patrimonio Culturale dell’Umanità. Qui, hanno rifugio i valori più veri dell’”albesità”, altrove abbacinati dalle luci della ribalta. Saggezze ancestrali che trovano cure nella civiltà della tavola della tradizione. Perché la tavola, quassù, è l’altare a Madre Langa: il passaggio obbligato per capire il genius loci di una terra eletta a mito del gusto, culla e forziere di saperi secolari e di un sentimento empatico verso la terra. Pertanto, la ricerca dello spirito della cucina delle terre alte di Langa è anche un viaggio culturale, tra echi e rimandi letterari: da Pavese a Fenoglio a Monti. Un viaggio tra i colori e i profumi di un paesaggio oggi in rapida mutazione, sotto la spinta dei cambiamenti climatici e di nuovi stimoli economici: il nocciolo, certo, ma anche la vite, la lavanda, l’Enkir accanto o addirittura dentro al verde arcaico del pascolo e del bosco.
La cucina, anzi la civiltà della tavola dell’alta Langa è intrisa di assolutezza e di intensità sacrale, perché consapevole dei non lontani tempi della malora. Declinati secondo saperi e sensibilità patrimonio segreto di ogni dinastia di osti, emergono i caratteri identitari di una cucina “made in alta Langa”. Come nella più autentica tradizione contadina, il salame crudo e il salame cotto sono il benvenuto a tavola. Le acciughe al verde o decorate con riccioli di burro raccontano delle vie del sale e degli influssi liguri. La primitiva carne cruda va fiera dei suoi contenuti identitari. Il vitello tonnato mantiene l’originaria aura di piatto della festa. L’estivo carpione esalta i contenuti della cucina casalinga. Il glorioso fritto misto suggella occasioni da ricordare. La pasta fatta in casa è un assoluto: dai tajarìn ai ravioli del plìn, dalle lele di Castellino Tanaro alle friciule ai gonfiotti di Paroldo. Le erbe per bagnetti, sughi e ripieni sono sapienzialità arcana. La naturalità dell’orto e dei luoghi impronta i piatti stagionali, trovando sublimazione nella sinfonia di sapori e di colori dell’insalata russa. Il tartufo bianco d’Alba incorona la cucina autunnale, ma spazio e attenzioni trova anche il tartufo nero. Tra i secondi, primeggiano ancora il pollo e il coniglio. La lepre e il cinghiale eternano l’unione con la polenta. Fra Murazzano, Bosia e Roccaverano, la toma e la robiola sono cultura. Il bonét è una certezza. La torta di nocciole porta in tavola l’orgoglio identitario. Il vino dolcetto, a volte “della casa”, affianca le raffinate bollicine dello spumante Alta Langa, orgoglio enoico di tutte le colline di quest’angolo di Piemonte.
Ovunque, una cucina concreta e coerente, genuina, sensata e bella, morbida e generosa. Antica e modernissima. Il potagé e il caminetto come simboli. La “schéira” (tempo secco) e il “marìn” (vento che arriva dal mare) tra gli ingredienti per impastare, tirare e tagliare la pasta. O per stagionare i salami. Una cucina capace di seguire il battito dei tempi, ma sottovoce, senza perdere l’afflato epico, senza proclami, con l’autorevolezza che deriva dalla consapevolezza di essere parte di una terra benedetta.
Una cucina che rispecchia i valori delle alte colline. Il lavoro è tutto, ma il far festa è un dovere verso la comunità. Il risparmio è filosofia di vita, ma la tavola deve essere generosa e il denaro si gioca e si “traversa”. In questo scrigno di valori che hanno reso possibile il riscatto dalla malora, ergendo le terre alte di Langa a modello di accoglienza turistica, è racchiusa la certezza di un futuro luminoso per la civiltà dell’erca (la madia per impastare) e dei tajarìn.
di Luciano Bertello